Negli ultimi mesi si è parlato spesso di “blocchi mentali” nella ginnastica artistica. Cosa sono?
La tematica ha avuto risonanza mondiale per aver colpito la pluricampionessa americana Simone Biles. Tuttavia, si tratta di una problematica molto comune, che colpisce e ha colpito moltissimi ginnasti e ginnaste. Ne abbiamo parlato con due personalità di spicco della ginnastica artistica italiana: Federica Macrì e Veronica Servente. Abbiamo raccolto le loro testimonianze e la loro personale esperienza su questo tema.
Federica Macrì
Avere un blocco mentale è come svegliarsi un giorno e non saper più camminare, è come non sapere se dover mettere davanti il piede o il braccio. Vuol dire che, di punto in bianco, senza una spiegazione logica e razionale, non riesci più a fare un movimento o un gesto che hai fatto fino a un giorno prima.
Ciò che si prova è una sensazione di impotenza mondiale. Ti senti stupida e ti dici “come è possibile che fino a ieri riuscivo a fare questo e adesso non riesco più a farlo”. Non riesci più a trovarti nello spazio, non sai dove inizia e dove finisce il tuo braccio, il tuo piede, il tuo corpo. In aria non hai la più pallida idea di dove tu sia e cosa tu stia facendo, e hai dei punti di riferimento totalmente diversi.
I punti di riferimento sono le sensazioni che senti all’interno del tuo corpo quando sei in aria. Tu, in quel momento, non senti più il movimento. Quando hai un blocco non sai più da che parte iniziare: dove staccar le mani, dove girare, dove attaccare. È il nulla cosmico.
La prima volta che mi è successo è stata nel 2007, prima del Test Event di Pechino. Allora non riuscivo più a partire per il Tarzan (movimento a parallele dall’alto verso il basso). L’ho superato ripartendo da zero: con l’aiuto dell’allenatore, facendolo in buca, partendo non dalla verticale (come solitamente si fa il Tarzan), ma partendo dalle oscillazioni. Questo perché non avevo proprio più idea della tecnica. Non sapevo più come scendere, dove portare i piedi, dove metter le mani, non capivo più nulla.
L’ho superato così e poi andando a Brescia. Siamo partiti un weekend e, arrivati lì, come sempre Enrico (Casella) mi ha chiamata come si fa per una gara. Ho alzato il braccio per salutare e sono partita: punti di riferimento totalmente diversi, un’altra palestra.
La mente ha cancellato ed è ripartita, e da quel momento l’ho rifatto. Poi con il Tarzan mi è successo nuovamente da più grande, intorno al 2016/2017 e lì l’ho superato imparando a fare lo Shaposhnikova, così non dovevo più partire dalla verticale, ma dovevo semplicemente fare Shaposhnikova, oscillazione e Tarzan. Quindi da più grande ho trovato questa soluzione e devo dire la verità, dal 2007 in poi quel movimento mi ha sempre fatto paura e dato fastidio. Era sempre come un punto fisso che mi è rimasto in testa.
Quel determinato elemento (Tarzan), ha suscitato in me sempre quella piccola ansia in allenamento, mentre in gara sarà per l’adrenalina o per mille emozioni, non ci pensavo minimamente.
Un altro blocco c’è stato sempre nel 2007, quindi lo associo a un anno che è stato difficile e tosto, perché era un anno di gare molto difficili e importanti a livello psicologico. C’era molta pressione per Pechino, avevo fatto i mondiali in cui siamo arrivate quarte, quindi lo associo a questo periodo in particolare. Infatti, il culmine di questo periodo è stato l’infortunio nel 2008 a Febbraio.
Non facevo più il doppio avvitamento al volteggio, non mi trovavo più in aria, non sapevo più la differenza tra uno e due. Stiamo parlando di avvitamenti, come sostanzialmente è successo alla Biles. La soluzione è stata semplicemente ripartire dalla base e piano piano fare solo un avvitamento. Infatti al Test Event di Pechino a dicembre 2007, dopo l’estate e i mondiali di Stoccarda in un periodo abbastanza stressante, ho portato solo un avvitamento a volteggio e con Diego (Pecar) avevamo ripreso in buca proprio teso, teso, un avvitamento. Il doppio avvitamento non l’ho più fatto per un bel periodo.
Ma poi l’ho rifatto nel 2016 in una gara di Serie A. Perché, appunto, avevo questo sassolino che volevo togliermi dalla scarpa. Quindi da più grande, considerando che erano passati quasi 10 anni dal 2007 al 2016, ho deciso di riprenderlo e quindi possiamo dire che ho chiuso il cerchio anche per quel movimento.
Veronica Servente
Parlerò della mia esperienza più da atleta che da allenatrice. Avere un blocco in realtà significa perdere un po’ l’orientamento quando si è in volo, quando si sta per eseguire un elemento. Quindi, in sostanza, in volo non sai più dove è per terra e dove è il soffitto. Di conseguenza la sensazione di paura è grande, e l’unica reazione istintiva è quella di stare in tenuta per cercare di non farti male, perché veramente è una brutta sensazione.
Quindi, ritornando a ciò che è successo a Simone Biles, provo a immedesimarmi anche se la mia ginnastica era molto diversa dalla sua per difficoltà di esecuzioni, però immagino che se lei al volteggio ha avuto uno di questi blocchi, cioè la sensazione di non capire dove fosse, era impensabile che potesse affrontare un esercizio al corpo libero, con le difficoltà che fa lei, in un campo gara.
Non puoi partire per un doppio con triplo avvitamento con il rischio di non sapere dove ti trovi. La sensazione dal punto di vista psicologico è molto brutta, nel senso che il rischio è che venga presa questa tua paura un po’ come un capriccio, quindi non sempre è compreso. Soprattutto perché ritentare e riprovare quell’elemento dove hai avuto quella sensazione ti crea paura e un pochino quella paura, anche quando superi il blocco, ti rimane nel tempo. La paura che possa accadere di nuovo.
A me era capitato sia al Tkachev alle parallele che nel lavoro degli avvitamenti al corpo libero. Il Tkachev non l’ho mai più ripreso, nel senso che avevo provato a rifarlo ma prendendo delle Granvolte. Il lavoro degli avvitamenti al corpo libero, invece, pian piano l’ho ripreso sempre senza andare oltre il doppio avvitamento. Considerando che io lavoravo comunque molto sugli Tsukahara, oltre quello non sono più riuscita ad andare.
Per cercare di risolvere questi blocchi, il procedimento è stato quello di cercare di tornare un pochino indietro, l’unico modo alla fine per riuscire a reinserire l’elemento nell’esercizio era stato inserirlo dopo un rondata twist smezzato. Quindi in realtà bisognava diminuire moltissimo la velocità del rondata flic. Quindi anziché fare il salto avanti smezzato teso come fanno adesso, io facevo rondata twist smezzato raccolto, rondata flic doppio avvitamento. Quindi mi ritrovavo con una velocità inferiore e riuscivo a controllare, altrimenti non ci sarei riuscita.
Non mi sento di dare consigli alle ginnaste, nel senso che ognuno probabilmente trova il suo modo per superarli, sicuramente la ginnastica è molto cambiata, anche l’attenzione dello staff e degli allenatori, quando capitano queste cose vengono affrontate in maniera un pochino più seria rispetto a quando facevo io ginnastica.
Ringraziamo Federica e Veronica per le loro testimonianze e per aver condiviso queste esperienze.
C.F. e F.T.
Foto: Filippo Tomasi